La comunità scientifica internazionale ha ampiamente evidenziato quanto sia riduttivo l’esclusivo modello bio-medico qualora riferito al mondo delle disabilità e del disagio in generale; da alcuni anni questo approccio puramente riabilitativo ha visto un’evoluzione più ampia e multidisciplinare nel modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute (ICF-2002).
Si tratta di uno strumento più completo ed affine all’oggettiva realtà di una “persona vera”, in carne ed ossa, non certamente riferito ad una patologia –o etichetta- che la contraddistingue rischiando di annullare l’individualità, le potenzialità e le aspirazioni della stessa.
Trattare di disabilità necessita di un linguaggio appropriato e standardizzato, possibilmente condiviso non solo in ambiente clinico ma anche tra gli operatori sociali.
Un presupposto imprescindibile riguarda un cambiamento di rotta, un salto di qualità sul fronte culturale unito ad una rivisitazione dell’immagine della persona disabile, non meramente caratterizzata dalla “patologia” che la accompagna (e spesso la limita) nel suo percorso di vita, ma, al contrario, un insieme di “qualità”, funzionamenti e potenzialità che la rendono unica ed inimitabile nell’interazione con l’ambiente esterno.
Nella ricerca di un linguaggio universale in tema di disabilità l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha formulato negli anni diverse definizioni riferite ai concetti di menomazione, disabilità e handicap, mettendoli in relazione tra loro, cercando altresì di avvicinare il pensiero scientifico con la sensibilizzazione dell’intera società a queste tematiche.
Se nei primi anni la visione era puramente medicale; nel 2001, l’OMS ha proposto agli operatori del settore uno strumento nuovo con caratteristiche innovative per l’inquadramento e lo studio dei deficit ma soprattutto per una nuova visione di tipo socio-culturale: la Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute (ICF-2002).
In tale classificazione spariscono le definizioni di menomazione, disabilità ed handicap, sostituiti con termini neutri. Viene così spostata l’attenzione dal rilevamento del deficit (aspetto negativo) alla valutazione delle funzionalità (attività e partecipazione).
Con il termine “attività” si intende la capacità di eseguire un compito mentre per “partecipazione” ci si riferisce al coinvolgimento della persona all’interno delle situazioni di vita nelle quali la persona stessa agisce.
L’ICF-2002 cerca di superare la contrapposizione esistente tra il modello medico e quello sociale: la disabilità non è più considerata come “l’incapacità a fare a seguito di una malattia” (visione puramente medicale), ma conseguenza di una complessa relazione tra le condizioni di salute di un individuo e di fattori personali (es. età, educazione, professione, cultura, carattere, stile di vita, ecc.) e ambientali (es. luogo in cui si vive, usi e costumi locali, esperienze, ideologie del gruppo di appartenenza, ecc.) nei quali il soggetto stesso è inserito.
Si tratta quindi di un approccio globale -definito bio-psico-sociale- riferito non solo a soggetti “disabili” ma a chiunque, perché nessuno è escluso nel corso della propria esistenza dalla potenziale esperienza di una limitazione nello svolgere una qualsiasi attività o a partecipare all’interno di uno specifico contesto, indipendentemente dal fatto di essere o meno “malato”.
E’ dunque chiaro che tutti gli operatori (non solo il personale medico e riabilitativo!) che lavorano per lo sviluppo delle abilità residue o trasversali della persona caratterizzata da debolezze hanno titolo per dire la loro all’interno di una sessione multidisciplinare, permettendo una valutazione dinamica dei funzionamenti del soggetto nei differenti ambiti nei quali questo è inserito.
Grazie all’ICF-2002 anche gli ambiti socio-educativi si sono quindi riappropriati del loro valore ed autorevolezza in un clima non certamente di contrapposizione con il mondo della riabilitazione, ma al contrario, di collaborazione e sinergia, dove al centro dell’attenzione di tutti gli operatori e tecnici c’è una persona, non la sua patologia!
Da questi presupposti è evidente quanto possano essere importanti le attività definite come co-terapie quali l’ippoterapia e l’equitazione integrata® nello sviluppo di abilità residue in un contesto certamente demedicalizzato, strutturato per la definizione di una progettazione individualizzata e multidisciplinare.
L’equitazione integrata® come evoluzione alla tradizionale ippoterapia
In un’ottica totalmente demedicalizzata, volta alla partecipazione dei più deboli nella pratica equestre per lo sviluppo delle abilità residue e trasversali, EQUITABILE® da anni lavora in linea con i presupposti dell’ICF-2002 sottolineando l’importanza di spogliare da anacronistiche etichette (e dalle patologie) la persona caratterizzata da svantaggio, trattandola quindi in modo normale e senza pregiudizio alcuno.
Proprio grazie al fatto che l’equitazione integrata® non è ippoterapia -quindi totalmente estranea alla riabilitazione medicale- ma attività ludico motoria finalizzata al benessere e sviluppo delle abilità dei più deboli, è possibile realizzare progetti individualizzati sulla persona in un clima informale di educazione e lucidità sportiva.
Grazie alla facilitazione della presenza del cavallo è dunque possibile incentivare una partecipazione attiva ed inclusiva fuori da qualsiasi schema medicale, pur seguendo procedure e percorsi fatti di intenzionalità strutturata per l’ottenimento di importanti obiettivi centrati sul bisogno della persona.
L’inclusione sociale alla quale tendiamo mira a creare occasioni di incontro tra le diversità ed abbattere anacronistici muri di pregiudizio, stimolando la partecipazione attiva di tutti i partecipanti alle attività e sensibilizzando al valore delle diversità come occasione di crescita personale e civile.
La ragionata programmazione e strutturazione degli interventi di equitazione integrata e di mediazione equestre permettono di sviluppare una rete di interazioni con altri operatori del campo socio-sanitario ed essere parte di una equipe multidisciplinare che ha il solo obiettivo di avere la Persona, ed i suoi bisogni, al centro delle azioni di ogni singolo operatore ed area di intervento.
Il gruppo di lavoro aperto al modello bio-psico-sociale suggerito dall’ICF-2002 avrà quindi la possibilità di prendersi carico della persona debole non solo nella sua componente “patologica”, ma potrà altresì allargare gli orizzonti della sua valutazione a tutti i differenti (ma ugualmente importanti) ambiti ove la persona stessa è coinvolta.
Ciao Roberto,
bellissimo articolo, nel 2003 alla Pampa era questo il concetto che cercavo di esprimerti.
Francesca