“Il cavallo non ti giudica. Vede solo quanto sei attendibile e affidabile, in una parola: onesto.
È una preda, vive di velocità e sensibilità, è attento ai minimi dettagli, con lui non puoi mentire.

Sente la tua ansia, ti guarda negli occhi, cattura la tua espressione. Per relazionarti con il cavallo devi abbandonare le tensioni, gli atteggiamenti ed i ruoli imposti, non serve alzare la voce o le mani, e soprattutto devi prima imparare a domare te stesso”

Claudio Villa, progetto “Salto Oltre il Muro” nel carcere di Bollate

No, non sto parlando di qualche accorgimento tecnico per la partenza nelle corse dei cavalli o di un bizzarro tentativo di evasione, ma della possibilità di aprire, grazie anche all’attività equestre, quell’incapacitante gabbia d’indifferenza, disperazione ed inutilità che circonda il carcere e le persone che vi sono recluse. Nella consapevolezza che esistono pure gabbie invisibili, virtuali, e che spesso vengono ancora innalzate barriere – non di ferro e cemento ma culturali e sociali – verso gli emarginati, gli esclusi e i condannati…

E allora proprio l’imparare a prendersi cura del cavallo può essere una maniera di curare se stessi ed il male inferto e subito. Una maniera per creare un nuovo rapporto con se stessi, gli altri, la società, per aprire finalmente queste gabbie!

Perché la verità non è un’evidenza, tutt’altro. È spesso qualcosa che tutta la società, o almeno quel fondamentale momento del potere che è la comunicazione, si accorda per censurare.
Ci sono verità che sollevano problemi senza soluzione, che presuppongono un cambiamento radicale della società fino dalle sue fondamenta.

Il carcere è una di queste verità. Esso infatti riguarda non soltanto coloro che lo vivono, ma tutti quanti. Il carcere è un luogo di dolore, solitudine e abbruttimento. Non ha nulla a che fare con l’espiazione della colpa né tantomeno con la redenzione del prigioniero.
Come tutte le verità, anche questa non necessita di essere dimostrata. Tutto tende a dimostrare il contrario, ovvero che si tratta di un luogo perfettibile ma strutturato da una tensione di giustizia.

Ma si tratta di un’idea soltanto ripetuta, non certo realizzata. Chiunque si prenda la briga o abbia la disgrazia di conoscere il carcere non ha bisogno di dimostrazioni o prove, sa della falsità di ciò che viene detto e della verità di ciò che non viene detto.

L’attuale situazione delle carceri italiane, su cui non mancano le denunce e le statistiche, non induce all’ottimismo. Di fronte a strutture previste per quarantamila persone, la popolazione carceraria è ormai di settantamila detenuti, di cui tra un terzo e la metà tossicodipendenti, e più di un altro terzo di cittadini extracomunitari, con un indice di recidività oltre il 75%, che di fatto denuncia l’inefficacia delle norme e procedure trattamentali che dovrebbero accompagnare e sostenere i detenuti nel loro percorso di reinserimento sociale, affinché il carcere e la pena non siano più e solo strumento di punizione e di esclusione dalla società ma possano portare a quella presa di coscienza da cui dipende ogni speranza di reinserimento e liberazione.

Una presa di coscienza dei propri limiti e dei propri errori che è anche facile per chi, più che la “malavita” ha conosciuto solo una “vita mala”, fatta di abusi, droga, violenza, miseria materiale e morale, ma che da sola non può bastare se manca poi quella rete di relazioni personali, familiari e sociali in grado di dare sostegno e prospettive una volta fuori dal carcere, e impedire il ricadere nei vecchi modi di vita, nei vecchi comportamenti sbagliati ed autodistruttivi – e poi di nuovo al carcere, più disperati e devastati nel corpo e nella mente, con nuove e più gravi condanne, con situazioni sociali e familiari sempre più compromesse…

Un’ oggettiva condizione di disagio e disabilità sociale quindi, rispetto alla quale proprio le attività di riabilitazione equestre possono avere un valore emblematico di speranza e di riconciliazione non solo nell’adempimento del dettame costituzionale sulle finalità rieducative della pena, ma perché siano superate le vecchie e incapacitanti logiche di separazione ed esclusione del disagio, di possibilità negate e non consentite capacità…

Verificando le possibilità offerte con la mediazione del cavallo nel sostegno, la riabilitazione e l’autonomia di persone in condizioni di detenzione o in misure alternative al carcere, e la loro integrazione sociale e nel mondo del lavoro.

Gli aspetti rieducativi e riabilitativi del cavallo sono noti da sempre, nel nostro caso la relazione uomo-cavallo è il prototipo della relazione sociale come differenza, ma è anche, a mio avviso, la spia della relazione che riusciamo a instaurare con gli aspetti oscuri, e non funzionali, della nostra personalità e del nostro vissuto.

Perché il cavallo reagisce non solo ai segnali che noi inviamo coscientemente, ma soprattutto ai nostri sentimenti e alle nostre intenzioni inconsce, al punto che le sue reazioni possono essere percepite e lette come uno specchio del nostro stato emotivo profondo, obbligandoci a fare finalmente i conti con noi stessi e col nostro passato.” (F.Manca, ASOM- Bollate)

Imparare a comprendere la diversità del cavallo, e la nostra stessa diversità, ci aiuta così a stabilire una relazione che sappia contenere senza coartare, assecondare guidando, in quel sottile gioco del cedere e del richiamare che non confonde mai autorità e fermezza con forza e violenza.

In questo gioco di specchi e di vissuti, la mediazione del cavallo non può certo avere la pretesa di risolvere i tanti problemi del carcere, ma è senz’altro in grado di dare o ridare al soggetto quelle qualità affettive e cognitive che supportano il senso di sé, il senso del dovere, il rispetto delle persone e delle cose, lo spirito di collaborazione, l’altruismo, la generosità, l’equità e la riconoscenza, fino a modificare comportamenti e stili di vita radicati nel passato.

Paradigma di una vera educazione alla cittadinanza, a divenire cioè cittadini onesti e responsabili, non più dannosi ed esclusi dalla società, ma integrati e portatori di positive esperienze e di valori condivisi.

Nel contesto del carcere, la mediazione del cavallo è diretta allora a valorizzare specificatamente i seguenti aspetti:

  • l’elemento ludico-ricreativo, cioè il gioco e il divertimento, che consentono di rinforzare i legami, di stimolare i contatti fisici e le risate; i detenuti, tramite esso, possono liberare le loro energie e ricavare sensazioni di benessere e di calma;
  • la facilitazione sociale: la presenza del cavallo, spesso, costituisce un’occasione di riconoscimento del proprio ruolo e di interazione con altre persone;
  • la responsabilità: il legame uomo-cavallo si basa principalmente sulle emozioni che, a loro volta, favoriscono la crescita psicologica, la consapevolezza e l’assunzione delle proprie responsabilità;
  • l’attaccamento: il legame che si viene a creare tra il detenuto e il cavallo può, almeno in parte, compensare l’eventuale mancanza di quello interumano, e, comunque, favorire lo sviluppo di legami di attaccamento basati sulla fiducia, che potranno essere dieretti, in seguito, alle persone;
  • l’empatia: la capacità di identificarsi con il cavallo viene trasferita, nel tempo, anche alle relazioni con gli altri esseri umani;
  • l’antropomorfismo: l’attribuzione di alcune caratteristiche umane al cavallo può rappresentare un valido meccanismo per superare un eventuale egocentrismo e focalizzare la propria attenzione sul mondo esterno; inoltre, la proiezione e l’identificazione di alcune parti di sé sull’animale possono aiutare gli individui a riconoscere e accettare parti di sé che spesso vengono rifiutate.

In questa prospettiva, già da alcuni anni è in corso presso la Casa Circondariale di Milano-Bollate un progetto di reinserimento sociale attraverso la formazione equestre curato dall’Associazione Salto Oltre il Muro. Un progetto unico in Europa, con maneggio, scuderia e alcuni cavalli per permettere nuovi spunti di inserimento lavorativo ed educare alla legalità e alla libertà (fornendo anche accoglienza a cavalli maltrattati o sequestrati alla criminalità).

Oltre all’aspetto formativo della gestione dell’animale, il forte impatto emotivo che il cavallo ha sui detenuti che se ne prendono cura conferma l’importanza dell’iniziativa, come nella testimonianza di un detenuto, C. V., che ne ha seguito i corsi:

“É appena terminato il 5° corso di artiere ippico, un’esperienza unica nel suo genere, di cui si sono occupati anche i media, perché la bellezza, l’eleganza, il carattere dei cavalli ci affascinano da sempre. Il cavallo evoca vecchi giochi, una volta bastava un bastone e un po’ di fantasia e si cavalcava, e chi non ricorda il cavallo a dondolo? Che dire poi dei cavalli delle giostre, colorati, pieni di lustrini?

La nostra condizione acuisce la nostra sensibilità, mano a mano che si riesce a progredire nell’approccio con il cavallo, a superare i giustificati timori, a capirli e a farsi capire, ad affezionarci a loro, si prova una sensazione benefica, simile alla felicità.
In altri possono risvegliarsi sensibilità sopite, magari è possibile riscoprire valori fondanti della società: solidarietà, amicizia e altri ancora.

La cosa più difficile nel lavoro col cavallo è il lavoro con sé stessi. Dal cavallo possono cadere anche i campioni olimpionici, anche nella vita talvolta capita – come a noi – di cadere, è allora necessario rialzarsi, bisogna essere tenaci…

Avere i cavalli in carcere è un sogno, e nei sogni gli uomini sono veramente liberi!

E anche se l’esperienza del carcere modello di Bollate rimane purtroppo un caso isolato, da sempre nelle Colonie Penali Agricole il personale di custodia svolge la sua opera anche in sella, e proprio ai detenuti sono affidati la cura e l’allevamento dei cavalli, che spesso possono anche montare per le esigenze del loro lavoro.

E recentemente nel progetto C.O.L.O.N.I.A. , finanziato dalla Cassa delle Ammende e che riguarda le Colonie Agricole di Is Arenas, Isili, Mamone, in tutto circa 6.200 ettari e 800 detenuti,  oltre a stabilire il passaggio al biologico delle coltivazioni e degli allevamenti, ha anche previsto l’incremento delle attività equestri, considerandole non solo dal punto di vista produttivo e della formazione professionale ma anche per la loro rilevanza “trattamentale” per quel che riguarda la rieducazione ed il reinserimento dei detenuti.

Colonie Agricole dove, da regolamento, dovrebbero essere assegnate persone dichiarate “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, definizioni ormai desuete, risalenti alla prima metà dello scorso secolo, e che richiamano un interessante libro-inchiesta di Danilo Montaldi, “Autobiografia della leggera”, che ebbi occasione di leggere quaranta anni fa, poco prima di diventare anch’io involontario ospite delle patrie galere.
La “leggera”, in linguaggio gergale, era il mondo ai margini della legalità e della società: poveri epigoni di un Tiburzi o un Fioravanti, c’erano il pescatore e il cacciatore di frodo, c’erano i ladri di polli o di cavalli e le povere prostitute, c’erano le cascine e le osterie, e poi reati desueti, come l’abigeato, a dare l’affresco picaresco e insieme veritiero di un mondo in transizione tra civiltà contadina e sviluppo industriale – e destinato inevitabilmente a confrontarsi col carcere…

Ma anche le organizzazioni come la mafia e l’‘ndrangheta rivendicano, ed evocano negli stessi rituali di affiliazione, le loro origini contadine, permeate dal senso della famiglia, della terra, della gerarchia, della responsabilità, in una sorta di nostalgia del mondo perduto delle origini, una stratificazione di antica sapienza contadina e di nuovi tentativi ed esperienze nelle asettiche strutture dei supercarceri o nelle stesse invivibili bolge delle sezioni normali. A dire di indecifrabili scenari e intimi bisogni, imprigionati e sbarrati e che tuttavia ancora lanciano i loro dolenti richiami di dimensioni represse ma non essiccate, imprigionate ma non estirpate… pur avendo ormai ceduto alla travolgente avanzata della criminalità moderna fatta di droga e kalashnikov, e dove onore e dignità appaiono come una bestemmia…

E allora anche il cavallo diviene un utile strumento per una riscoperta di valori e tradizioni che possono essere una sorta di “richiamo all’ordine” per chi si è perso, e punto di partenza per un nuovo percorso “ippico” basato sulla legalità e la responsabilità…

Oggi in realtà nelle Colonie Agricole sono assegnate altre categorie di detenuti, come extracomunitari, rom e, per questioni geografiche, sardi. Detenuti nella cui cultura il cavallo è ancora presenza viva e attuale, e per i quali il nobile animale può anche risultare un ottimo mezzo per attivare relazioni interpersonali, per far conoscenze ed amicizie, per aprire la coscienza alla responsabilità, agli altri, alla società – specie in un territorio come la Sardegna, e anche la nostra Tuscia: terre di cavalli e di briganti, terre aperta all’accoglienza, dove  quel che conta alla fine non è tanto ciò il fato, la società, o il carcere hanno fatto dell’uomo, quanto quello che egli vuole ancora fare di ciò che è stato fatto di lui…

Qui il cavallo è allora un valido strumento “trattamentale”,  d’inserimento sociale e valorizzazione di sé e della propria identità, a dare anche quel senso di appartenenza che è la premessa per formare cittadini aperti a nuovi scenari di vita all’insegna dell’onestà e del lavoro.

Ed ecco che in questo contesto ritorna l’aspetto simbolico che ci porta a proiettare sul cavallo parte delle nostre qualità e dei nostri difetti, quasi a prefigurare nella relazione con lui alcuni aspetti del nostro destino. Come nei Centauri, per metà uomini e per metà cavalli, quando l’Io e l’Es, cioè l’uomo pensante e l’animalità istintuale, vivono finalmente in una relazione armonica e priva di fratture. Mentre però il centauro resta sempre in simbiosi con la parte animale, il cavaliere impara a padroneggiare il cavallo e ad entrare in un rapporto di reciproca comunicazione.

Sul piano simbolico l’Io può sperimentarsi come separato dall’Es e diventare più consapevole di se stesso, in un rapporto ove i termini e i ruoli sono scambievoli. Infatti guidare il cavallo è anche un guidare se stessi, domare e dominare le lunghe ombre del passato.

Io stesso ho potuto sperimentare questa richiesta di autenticità e d’integrità mediata dal cavallo. Cinque o sei anni fa, frequentando all’Università della Tuscia il master sull’agricoltura etico-sociale, dove avevamo affrontato anche i temi del disagio, della disabilità e dell’handicap, insieme alle potenzialità delle terapie assistite dagli animali, avevo spesso scherzato coi miei compagni di corso sul fatto che, come detenuto in semilibertà, ero considerato un “soggetto debole”, e forte del metro e novanta di altezza e cento chili di peso – oltre che della “cattiva fama” legata al mio passato – li sfidavo scherzosamente a volersi cimentare con me in qualche prova di forza. Uno scherzo, certo, ma che tradiva anche la difficoltà a liberarmi dalla gabbia di un passato duro a morire…

In quello stesso periodo scoprii anche la passione per il cavallo, con le prime uscite insieme a Bella, una splendida pezzata perfettamente sbrigliata che portandomi tranquillamente in lunghe passeggiate e nelle tante feste di cavalli della zona mi stava insegnando a cavalcare e, insieme, a scoprire una nuova immagine di me e nuovi rapporti sociali. Quando dopo pochi mesi Bella morì per un attacco di malaria sperimentai la mia debolezza – cosa che non era mai avvenuta per le sconfitte, le condanne e i tanti anni di carcere ed isolamento… Una presa di coscienza e un’esperienza preziosa, anche se dolorosamente liberatoria: finalmente fuori dalla gabbia della mia presunzione, delle mie false sicurezze, finalmente fuori dal gabbio!

Attualmente è allo studio una replica dell’esperienza di Bollate anche in un carcere dell’Umbria, mentre ad Isili è in progetto un’iniziativa diretta alla valorizzazione del “Cavallo del Sarcidano”, di cui la colonia conserva uno dei pochi branchi superstiti. Ma sono moltissimi i carceri che, come il Nuovo Complesso Penitenziario della borgata Aurelia qui a Civitavecchia, dispongono di ampi spazi verdi sia all’interno che all’esterno del muro di cinta, e che potrebbero essere utilizzati per attività di riabilitazione equestre attraverso nuovi approcci di orientamento, sostegno e formazione delle persone detenute per aiutarle a ritrovare e migliorare quel rapporto con se stessi, con gli altri e la società che è fondamentale per avere punti di riferimento validi e condivisi e arriva riprendere in mano la propria vita.

Vera possibilità, a fronte di tante iniziative che pur profondendo energie e risorse per programmi di rieducazione, formazione professionale ed inserimento sociale, si accontentano spesso dei risultati che vengono mostrati sulla carta – nei bilanci o nei giornali – senza curarsi poi del destino degli uomini e delle donne imprigionati, che anche uscendo dal carcere spesso restano condannati ad un futuro di recidive, di carcere, droga, emarginazione.

Un percorso equestre allora attraverso ed oltre il gabbio, attraverso ed oltre il cavallo, per ridisegnare, con la rinnovata fiducia in se stessi, nelle proprie capacità e negli altri, quella necessaria elaborazione del vissuto che, insieme all’adeguamento alle regole della società, è condizione e premessa di una vera autonomia personale, sociale e culturale…

Non solo un sogno, allora, ma una speranza e una promessa!

Mario Tuti
Architetto, dottore forestale e Operatore di agricoltura sociale