Nell’equitazione volta al sociale gli operatori che svolgono attività riabilitativa (fisioterapisti, psicomotricisti, psicologi e medici specialisti) ben conoscono la differenza tra menomazione, disabilità ed handicap.
In altri contesti più squisitamente ludici o pre-sportivi gli stessi tecnici spesso non hanno chiari questi termini e rischiano di pubblicizzare le loro proposte come generica “ippoterapia” o “riabilitazione equestre” contribuendo a creare confusione in un contesto ancora poco regolamentato.
Sino ad una ventina di anni fa quando si parlava di disabilità o di svantaggio, tra gli stessi operatori del settore ci si riferiva a concetti molte volte ambigui e non ben definiti, spesso attinti dal senso comune o da un rigido utilizzo di specifici protocolli o classificazioni “di settore”.
Ecco perché tra le stesse Istituzioni ed Agenzie operanti nel Sociale non era –e alcune volte non lo è tutt’ora– semplice uniformare non solo i termini utilizzati per riferirsi allo stato deficitario di una persona ma anche il tipo di approccio programmatico nei confronti della persona debole.
Il senso comune di una persona-tipo tende ad utilizzare il termine “handicap” in modo generico, inadeguato e confuso, alcune volte con una connotazione negativa (o dispregiativa) soprattutto tra i più giovani.
Con l’obiettivo di ricercare un linguaggio universale in tema di disabilità ed al fine di individuare strumenti capaci a rilevare nel modo più uniforme possibile le condizioni del disabile e i cambiamenti conseguenti a specifici trattamenti, nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha contribuito a fare chiarezza sull’argomento proponendo la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali, ICDH.
Questa classificazione è caratterizzata da un rigido presupposto sequenziale tipo causa-effetto dal taglio medico/diagnostico: forse è proprio per questo assunto che ancor oggi all’immagine della persona disabile si tende ad associare l’approccio riabilitativo come unica risposta alle sue esigenze più o meno esplicitate.
Secondo l’ICDH:
- La malattia è un’alterazione dello stato di salute della persona che può evolvere nella guarigione o nella cronicizzazione fino a modificare
- La menomazione è la perdita o anomalia di una struttura o funzione fisiologica o psichica
- La disabilità è una restrizione, una perdita di abilità nel compiere un’attività nel modo considerato normale;
- L’handicap è la conseguenza della disabilità a livello esistenziale: è la società che limita o impedisce l’adempimento del ruolo e dell’autonomia di un soggetto causa la sua condizione di svantaggio.
Da una malattia può originare una menomazione che causa una forma di disabilità che, a sua volta, può dare origine ad uno svantaggio di tipo sociale (o handicap).
Queste definizioni suggeriscono una certa linearità tra malattia, menomazione, disabilità ed handicap; il rischio spesso ricorrente è che il soggetto debole, portatore di una specifica menomazione, sia considerato menomato nel suo complesso, estendendo alla sua interezza il deficit che è proprio di una singola funzione.
A questo pregiudizio può seguire l’idea di una complessiva inferiorità della persona “legittimandone” una sua emarginazione.
L’ICF per non etichettare nessuno.
La classificazione ICDH del 1980, sebbene sia una pietra miliare dalla fondamentale funzione culturale inerente questi temi del Sociale, negli anni ha visto una sensibile evoluzione in linea con i cambiamenti di una Società attenta ad assorbire nuove influenze e percezioni su questi temi particolarmente importanti nel Terzo Settore.
Nel 2002, per sottolineare il diritto di esserci e partecipare delle persone deboli in generale (questa volta non solo disabili) è stato proposto dalla stessa O.M.S. un nuovo strumento con caratteristiche innovative per l’inquadramento e lo studio dei deficit: la Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute (ICF) .
In tale classificazione spariscono le definizioni di menomazione, disabilità ed handicap, sostituiti con termini neutri; si sposta così l’attenzione dal rilevamento del deficit (aspetto negativo) alla valutazione delle funzioni (attività e partecipazione) e si promuove l’integrazione delle diverse dimensioni della salute a livello biologico, psicologico e sociale, evitando di ridurre il tutto ad una visione puramente medica.
Nella nuova classificazione è stata cambiata la terminologia:
- a livello del corpo si usa ancora menomazione (impairment)
- a livello della persona, disabilità è stato sostituito con “limitazione all’attività personale” (activity)
- a livello della società, handicap è stato variato con “restrizioni alla partecipazione sociale” (participation).
Il termine handicap non compare più e viene abolito in tutte le classificazioni.
Inoltre sono stati tenuti in considerazione anche i fattori contestuali, ovvero tutto ciò che nella vita e nelle condizioni di esistenza di una persona costituisce l’ambiente naturale, artificiale e gli atteggiamenti sociali.
Alla “vecchia” concezione sequenziale dell’ICDH viene così integrata da una visione multidimensionale in cui i elementi concorrono ad influenzarsi vicendevolmente.
La sostituzione dei termini sottende un’evoluzione teorica e filosofica che rivoluziona la concezione precedente:
l’ICF non è riguardante le sole persone con disabilità: chiunque infatti può sperimentare una condizione anche temporanea di disabilità (per infermità, incidenti, o per l’avanzare dell’età) e quindi non è un tratto che contraddistingue soltanto alcuni gruppi di persone.
L’ICF ha un’applicazione molto più ampia, al di là del tempo, dello spazio e delle differenze culturali o geografiche, rendendo i principi che lo delineano universalmente adattabili a tutte le condizioni di “disuguaglianza” e di marginalità che ne può scaturire ivi compresi aspetti inerenti l’intercultura e le cosiddette “nuove povertà”.
Questo cambiamento introdotto al concetto di disabilità influenza molto non solo il sistema sanitario, ma anche le politiche e le strategie di programmazione degli interventi in tutti i campi del Sociale.
Per calarci nuovamente all’ambito equestre, alla luce dell’ICF viene ulteriormente confermata l’importanza di permettere e garantire la partecipazione delle persone “deboli” nella forma più rispondente alle singole esigenze, ivi compresa la possibilità di aderire ad iniziative ludico-sportive che possono anche –e giustamente- sfociare nell’agonismo.
Handicap e cavalli:
E’ interessante come alcuni termini abbiano acquisito nel tempo connotazioni diametralmente opposte e, nello specifico, come abbia attinenza la parola handicap con il mondo dei cavalli…
Trae infatti origine dall’espressione irlandese “hand in cap” (mano nel cappello): quando veniva raggiunto l’accordo economico all’atto della compravendita di un cavallo, i mercanti usavano porre la loro mano all’interno di un cappello a significare che l’affare era concluso.
Il tutto probabilmente per mantenere il “segreto” della quantità di denaro scambiato, pratica ancora molto attuale nel commercio dei cavalli…
Nel tempo la “mano nel cappello” è divenuto un gioco d’azzardo in voga negli ippodromi inglesi dell’ottocento, nelle pause tra una corsa e l’altra. La regola era che ogni giocatore coinvolto doveva porre in un berretto una somma uguale di danaro: tirato a sorte, chi vinceva portava via l’intero malloppo.
Entrata a pieno titolo nel gergo sportivo, l’handicap diventa un elemento (o coefficiente) che, per compensare disparità e disuguaglianze, attribuisce a ciascun contendente vantaggi o svantaggi a seconda delle loro probabilità di vittoria.
Per garantire così una identica condizione iniziale alla partenza, nelle gare ippiche si penalizza con un peso (l’handicap, appunto) il cavallo migliore, quello forte o, semplicemente quello che ha sulla schiena un fantino più leggero, in modo che siano garantite condizioni iniziali di relativa parità.
Se tutta la Società manifestasse uno spirito più sportivo caricherebbe l’handicap solo a chi ha una maggiore possibilità di riuscita, non ai più deboli: questo è ingiusto come impedire ad “alcuni” di partecipare…
bell’articolo, conoscevo già il termine h , non sono d’accordo però sul atto che siano più i giovani ad usare tale termine in modo negativo…anzi sono proprio le persone di una cera età che caricano questo termine di negatività.
io penso che sia peggio parlare di “diversamente abili”… c’è chi di abilità ne ha veramente poche e non serve addolcire la pillola…
Questo è un argomento pluridiscusso…. ma ancor oggi nella realtà quotidiana tutti noi sappiamo che davanti a qualsiasi disabilità l’occhio cade sempre, prima di tutto, su quella… Non è tanto il termine che si utilizza ma il rapporto, la relazione con cui ognuno di noi entra in rapporto con ciò che è diverso dalla cosìdetta “normalità”. Bisogna aiutare a capire chi non riesce a comprendere, chi non riesce ad uscire dagli stigmi, dalle etichette. E’ un lavoro contiunuo e ho paura che non finirà mai…sicuramente potrà migliorare dove le le persone avranno modo di avere una vita senza ostacoli che permetta loro di essere normali. Vi lascio una splendida frase di Pontiggia Giuseppe, padre di un ragazzo tetraplegico e scrittore di diversi libri : “I BAMBINI DISABILI NASCONO DUE VOLTE: LA PRIMA QUANDO VENGONO AL MONDO, LA SECONDA E’ AFFIDATA ALL’AMORE E ALL’INTELLIGENZA DEGLI ALTRI”….Buona riflessione….
Se può interessare, voglio portare una mia testimonianza.
Cinque o a sei anni fa, frequentando all’Università della Tuscia il master sull’agricoltura etico-sociale, dove avevamo affrontato anche i temi del disagio, della disabilità e dell’handicap, avevo spesso scherzato coi miei compagni di corso sul fatto che io stesso, come detenuto in semilibertà, ero considerato un “soggetto debole”, e, forte del metro e novanta di altezza e cento chili di peso – oltre che della “cattiva fama” legata al mio passato – li sfidavo scherzosamente a volersi cimentare con me in qualche prova di forza…
In quello stesso periodo ho scoperto anche la passione per il cavallo, con le prime uscite insieme a Bella, una splendida pezzata perfettamente sbrigliata che portandomi tranquillamente in lunghe passeggiate e nelle tante feste di cavalli della zona mi stava insegnando a cavalcare e, insieme, a scoprire una nuova immagine di me e nuovi rapporti sociali. Quando dopo pochi mesi è morta per un attacco di malaria ho scoperto la mia debolezza – cosa che non era mai successa per le sconfitte, le condanne e i tanti anni di carcere ed isolamento… Parlandone con una mia collega di master, psicologa ed esperta di ippoterapia, mi ha aiutato a comprendere che tutti abbiamo le nostre debolezze, le nostre disabilità, i nostri handicap – da vicino nessuno è “normale” – legati al momento, al contesto personale e sociale, etc.
Una presa di coscienza e un’esperienza preziosa anche per il mio lavoro con i ragazzi che in Comunità cercano di uscire dal loro stato di tossicodipendenza.
mille grazie ragazzi anche se in leggero ritardo…..tanti abbracci e mi raccomando…..sempre a cavallo!!!!!
[…] una più vasta platea di soggetti potenzialmente a rischio di disuguaglianza e marginalità in un modello bio-psico-sociale che vede la persona nella sua interezza, al di la dell’eventuale “etichetta” che la […]
[…] Purtroppo nella pratica della realtà quotidiana, non è sempre facile conseguire tali obiettivi; per fortuna l’attuale prospettiva orientata all’inclusione e partecipazione delle persone deboli nel tessuto sociale sollecita sempre più l’intreccio complementare delle competenze professionali (in ambito medico, psico-pedagogico, educativo, riabilitativo) per rispondere ai bisogni educativi speciali al fine di evitare che la diversità si trasformi in difficoltà e possa, al contrario, essere vissuta come costruttiva differenza. Su questo tema è possibile leggere un nostro articolo sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle disabilità e della Salute, ovvero l’ICF 2002. […]
[…] innovativa e rispondente ai dettami dell’ICF-2002 (classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute) è da […]
[…] ma che possa integrarsi con un’ottica bio-psico-sociale come largamente espresso dall’ICF-2002, in modo che la partecipazione attiva del soggetto renda ancor più efficace il suo impegno […]
[…] essere la strada maestra, quella che certamente non chiuderà le porte (creando l’ostacolo…l’handicap) alla normalizzazione ma che dovrà prevedere particolari attenzioni senza condurre ad evidenziare […]